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Renato Guarini

Intervista a: Renato Guarini.
Professione: rettore, Università La Sapienza di Roma
Contenuti: università, fuga dei ricercatori, informatizzazione, società.

Rettore, nonostante i ripetuti annunci governativi, la fuga dei dottori italiani assume in Italia spesso i connotati di una diaspora. Qual è la situazione, oggi, per un ricercatore?
Sicuramente si sono fatti tentativi per migliorare la situazione dei ricercatori in Italia, ma gli ultimi interventi legislativi – che si proponevano come risolutivi – non hanno inciso positivamente.

Quali sono i punti critici?
Di fatto il reclutamento dei giovani ricercatori in Italia non è ancora basato su percorsi trasparenti, capaci di premiare il merito. I giovani si trovano quindi ad affrontare generalmente un periodo di precariato, durante il quale il loro rapporto di collaborazione con l’università assume forme contrattuali non sempre proprie, né adeguate in termini di retribuzione.
Lascia ben sperare l’impegno dichiarato dall’attuale ministro Fabio Mussi per reclutare ricercatori con procedure concorsuali basate su nuovi criteri di valutazione.

Intanto, però, le classifiche internazionali mostrano un’università italiana poco competitiva, nella quale soltanto il suo ateneo si salverebbe. In uno scenario del genere, quali sono le prospettive concrete?
Oggi le università europee, e quelle italiane in particolare, sono indubbiamente in difficoltà sul terreno della competitività. Giocano a sfavore fattori di debolezza che riguardano sia aspetti strutturali, sia aspetti identitari, tra loro strettamente correlati.
Per quanto riguarda l’assetto strutturale, siamo posti di fronte a due modelli alternativi: da un lato l’università che vive – o sopravvive – di finanziamenti pubblici e che si rivolge alla società nel suo complesso; dall’altro l’università sostenuta da capitali e finanziamenti privati, tendenzialmente elitaria.
Si tratta di una contrapposizione da superare, prevedendo per le università pubbliche contributi privati accanto ad un impegno statale prioritario; per quelle private un maggiore impegno alla soluzione dei problemi che la società denuncia.

Che benefici ne deriverebbero?
Questo significa mettere l’università pubblica in stretta connessione con il sistema entro il quale opera, al fine di portare gli atenei europei a livelli di finanziamento complessivo pari a quelli che ricevono oggi, per esempio, le migliori università degli Stati Uniti.
Si pensi, per citare un riferimento comparativo, che mentre i paesi europei spendono in media poco più dell’1% del Pil per l’istruzione terziaria, gli Stati Uniti spendono il 2,6%, di cui l’1,4% deriva da finanziamenti privati e l’1,2% da fonti pubbliche.

Diceva che il problema non è solo strutturale.
Vi è infatti anche la necessità di mutare il nostro atteggiamento, e di mettere meglio a fuoco la percezione che abbiamo delle nostre reali capacità.
Le università americane esprimono in ogni ambito una manifesta convinzione del proprio agire e la certezza di svolgere un ruolo importante nel progresso della società, sia all’interno sia all’esterno del loro paese.

Quelle italiane, invece?
Le università italiane in particolare, ma anche quelle europee, sembrano invece avere attutito la consapevolezza del proprio ruolo nella società, nel sistema formativo, nel tessuto produttivo e conseguentemente del proprio valore e della propria visibilità.
È urgente quindi una riaffermazione di cittadinanza che sappia ridare fiducia agli atenei europei, confermare l’importanza di quella straordinaria struttura di diffusione della conoscenza che l’Europa ha costruito con le sue università a partire dal Medioevo, elemento fondamentale della koiné europea.

Data: marzo 2007.

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