Tutti i genovesi sanno dov’erano quando hanno saputo del crollo del ponte Morandi. Così come tutti i newyorkesi sanno dov’erano quando hanno saputo dell’attentato alle Torri Gemelle.
Perché se è vero che quello, in fondo, era solo un viadotto autostradale, a causa della morfologia di Genova era anche un po’ la scalcinata strada verso casa, o quella per il lavoro, o quella verso le vacanze. Era la croce sopra le nostre teste quando alla domenica si passava da quell’Ikea che ha ridato vita alla sponda industriale della Valpolcevera. Era l’ultimo insicuro rettilineo, spesso ingolfato d’auto, prima del ritorno.
Quel crollo è stato come un attentato a pochi metri dalla porta di casa. Un attentato in cui non c’era un esecutore suicida, o una malvagia pianificazione ideologica, ma solo una incuria, un disinteresse per la vita altrui e una ricerca del profitto portati a un livello così estremo, da sembrare quasi incomprensibile, da ricordarci quanto il male possa essere banale.
Ero lì, pochi muniti dopo. Per documentare qualcosa di indocumentabile. Macerie grandi come palazzi. Lamiere dalle quali gli occhi volevano istintivamente allontanarsi per la paura di scorgere qualcosa che non si sarebbe potuto dimenticare. Il silenzio rotto solo dagli allarmi di qualche auto impazzita. E poi i vigili del fuoco che sembravano trapezisti. La pioggia torrenziale che lasciava spazio in pochi istanti a un sole irreale, e a un cielo terso e limpido fino alla linea dell’orizzonte. La concitazione, l’attesa, la rassegnazione, le ore, i giorni.
Dopo tutto ciò, dopo l’annientamento di quarantatré esistenze non certo solo genovesi, dopo i sopravvissuti, gli sfollati, un quartiere sventrato e ricucito, la colata a picco del traffico merci, una intera valle tagliata in due per mesi. Dopo è arrivata la ricostruzione. Il nuovo ponte. E anche le inchieste e le passerelle istituzionali.
In questi mesi noi genovesi l’abbiamo guardato crescere in fretta quel nuovo ponte. Un po’ curiosi, un po’ diffidenti, un po’ indignati. Quella che sembrava una banale riga su una mappa, il perfetto bersaglio del secolare mugugno nostrano, si è trasformato in una realtà di acciaio, così diversa dal vecchio e colossale “ponte di Brooklyn” in cemento armato.
E oggi, col rispetto e il pudore tipici di questa terra, mi sento un po’ in colpa. Mi sento in colpa a pensare che quel nuovo ponte è bello. Perché sì, lo è. Una linea pulita, sinuosa, che quasi si mimetizza con le colline. I piloni snelli e slanciati. Come fosse uscito da quel mare che dista solo qualche centinaio di metri. Elegante.
Ma quella bellezza, quella semplicità, fanno nascere un certo turbamento. Un personale e privato senso di vergogna. Noi che eravamo lì pochi minuti dopo, con le persone ancora intrappolate. Con quei blocchi di cemento grandi come camion ancora bagnati dalla pioggia. Noi che eravamo a casa, al lavoro, lontani o a pochi metri. Noi parenti, noi amici, noi conoscenti, noi persone qualsiasi.
Ci sentiamo in colpa a guardarlo e a pensare che è bello. Perché lì, quel ponte, non ci dovrebbe essere. Di certo non così, non in quel modo. Quel ponte è come un bellissimo mazzo di fiori offerto alla donna che hai appena tradito.
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